Da poco andata in onda su La7, dopo il primo passaggio su Sky l’anno scorso, la serie HBO pluripremiata resta un monito inascoltato sui rischi ambientali e sulla gestione delle emergenze.
Si è conclusa da poco la miniserie Chernobyl in chiaro su La7, a un anno esatto di distanza dalla messa in onda su Sky Atlantic, il canale satellitare dedicato alle serie TV. Nell’arco di 12 mesi ne ha vinti di premi, tutti meritati, soprattutto quelli agli attori, e ne sono accadute di cose nel mondo.
Fortunatamente non nuove tragedie nucleari, anche se in Russia un episodio simile si è ripetuto ma è passato abbastanza in sordina nella remota Siberia, eppure l’emergenza che stiamo vivendo, la pandemia scatenatasi in questo 2020, è sorella stretta della gestione sovietica di Chernobyl. Un gemellaggio sinistro lega infatti la centrale nucleare di Pripyat alla megalopoli cinese di Wuhan, qualcuno addirittura già parla di nuova tappa del turismo macabro per la città focolaio del Sars-Cov-2. Se per la prima si trattava di radiazioni, per la seconda le spore virali hanno rappresentato la minaccia globale più grande dai tempi della Spagnola di inizio Novecento: ad accomunarle sono i regimi ospiti, entrambi comunisti, totalitari, dittatoriali.
In più di 30 anni nulla è stato imparato e anzi la Storia si è ripetuta tragicamente, con lo stesso copione di bugie, insabbiamenti, errori madornali, scelte fatali, tipico dei paesi privi di democrazia. Una delle frasi più famose pronunciate nella serie dal protagonista, il professor Valery Legasov interpretato dall’attore inglese Jared Harris, riguarda proprio la verità negata: “ogni menzogna che diciamo non fa altro che ingigantire il debito che abbiamo contratto con la Verità, e prima o poi quel debito dovrà essere ripagato”. Al momento non sappiamo ancora bene i contorni del debito con la verità del nuovo coronavirus, sicuramente ampi, e del resto ci stiamo ancora interrogando sulle responsabilità governative e locali in Italia legate alla gestione della pandemia nelle Rsa e nei comuni mancati zona rossa di Alzano e Nembro nella Bergamasca, ma di sicuro conosciamo quelli legati al disastro di Chernobyl.
La serie ha il pregio di offrire, oltre al punto di vista principale del già citato Legasov e della collega Ulana Khomyuk e del ministro Boris Scerbina, impegnati con lo scienziato nel contenimento della catastrofe, anche quello delle vittime come il pompiere Ignatenko e la moglie incinta che nove mesi dopo avrebbe partorito una bimba malformata e nata morta.
Terrificante è invece quello dei “carnefici” nella sala di controllo e nella sede di partito locale: irresponsabili e avidi di potere e poltrone, il direttore e i dirigenti comunisti dell’epoca sono ritratti sia nelle scelte folli del test di sicurezza a oltranza nel reattore, sia nella negazione del problema, tipico dei totalitarismi e dei sovranismi attuali (vedi alla voce Trump, Putin e Bolsonaro nella gestione pandemica attuale).
Persino Gorbacev, oggetto negli ultimi anni di un revisionismo storico come ultimo Presidente dell’Urss, ne esce con le ossa malconce, parzialmente assolto solo perché circondato da un apparato incompetente e troppo ancorato al passato (Gorbacev infatti era favorevole alla Glasnost, alla trasparenza e a un nuovo corso per l’impero sovietico in quegli anni, la cosiddetta Perestrojka).
La sfida scienza e politica è messa in atto fin dalla prima puntata (mai così attuale in tempi di no Vax e scontri tra gli stessi virologi e infettivologi): memorabile la scena dell’allarme lanciato a Minsk in Bielorussia, dati di laboratorio rilevati alla mano, dalla scienziata Ulana (interpretata magnificamente da Emily Watson, mai così brava) di fronte all’ennesimo arrogante segretario locale del Soviet, completamente a digiuno di scienza e pericoli.
Voce della coscienza e della ragione per tutte le cinque puntate, l’esperta di Fisica nucleare è un personaggio inventato per rappresentare sul piccolo schermo il team di scienziati che circondò nella realtà il professor Legasov. La ricerca della verità per loro si dimostrerà tutta in salita, tra visite all’ospedale di Mosca con le relative domande ai malati terminali, ovvero i tecnici colpiti mortalmente dalle radiazioni, e le continue incursioni del KGB, il temibile servizio segreto russo da cui proviene l’attuale Presidente della Federazione Russa, fresco di referendum sulla presidenza a vita.
Diretto magistralmente, con un bel lavoro musicale e soprattutto sul sonoro (eccellente la ricostruzione precisa dell’esplosione), Chernobyl è uno di quei prodotti nati per la TV che meriterebbe un passaggio anche sul grande schermo, per ripensare la società in cui viviamo e riflettere sulle pandemie in corso e su quelle future.