L’impossibilità di insegnare alla gente confinata in casa a causa della marea montante del fanatismo religioso raccontata in “Hypàte,”ci porta ai giorni nostri, alla didattica a distanza e al confinamento di insegnanti e alunni in piena pandemia Covid-19.

Tra i dialoghi che più restano impressi assistendo allo spettacolo Hypàte, scritto e diretto da Aniello Mallardo, e andato in scena al Giardino Romantico di Palazzo Reale a Napoli giovedì 30 luglio per il Napoli Teatro Festival Italia 2020, c’è sicuramente quello in cui Oreste, prefetto della città di Alessandria, avvisa la filosofa Ipazia circa l’impossibilità di insegnare alla gente, confinata in casa per il suo bene a causa della marea montante del fanatismo religioso.
Dopo mesi di chiusura totale delle scuole, e con la questione delle classi e dei banchi ormai quotidiana, è inevitabile pensare alla didattica a distanza e al confinamento di insegnanti e alunni quando in Italia e nel resto d’Europa avanzava la pandemia.
Il virus che colpì nella tarda antichità la più importante città della provincia romana d’Egitto riguardava però l’odio, l’antisemitismo, l’intolleranza religiosa, la ghettizzazione del paganesimo ormai sconfitto da un impero diventato cristiano a tutti gli effetti. Non che manchino anche oggi epidemie più pericolose del covid-19, considerando i tempi di sovranismo e populismo e di tutte le espressioni fanatiche mondiali, dal #metoo agli eccessi del #blacklivesmatter che abbatte le statue proprio come facevano i cristiani del V secolo d.C.
Lo spettacolo di Mallardo diventa inevitabilmente uno specchio di questi primi anni ’20 del nuovo millennio e dell’anno in corso, e la figura di Ipazia, geniale e colta intellettuale alessandrina sacrificata sull’altare dell’integralismo cristiano, torna ad essere inevitabilmente un simbolo, nonostante la ricerca dei fatti oltre le interpretazioni dichiarata nelle note di regia. Un simbolo nel significato più ellenico possibile: le due parti della Storia, laicità e fondamentalismo, come i pezzi di un anello o di un’antica tavoletta, si uniscono e ritornano a sfidarsi sulla pelle, sulla carne e sulle ossa di questa donna. Considerata strega per i monaci militanti del vescovo Cirillo, etichettata come santa martire dall’Illuminismo, definita empia pagana dai fedeli dell’epoca e allo stesso tempo incoronata campionessa del metodo scientifico astronomico moderno, avendo anticipato di secoli le intuizioni copernicane e di Keplero, rispettivamente sull’eliocentrismo e sulle orbite ellittiche.

Interpretata da Serena Mazzei, e quasi sempre assisa davanti all’astrolabio dell’antica Biblioteca data alle fiamme dai parabolani cristiani, Ipazia sembra già pronta per il lungo processo della Storia, in attesa di un eterno e ciclico verdetto che si consuma da più di mille anni. Come il suo nome suggerisce (Hypàte era una delle tre muse Delfiche della Lira, nonché la nota più alta delle tre corde su cui si articolava la scala musicale greca), tutto ciò a cui anela è l’equilibrio, l’armonia del pensiero e della musica. Ella infatti invoca l’aulos gioioso e la pace tra Elleni, Cristiani ed Ebrei in una città che era sempre stata faro di cultura e convivenza fraterna ancor prima della mitica meraviglia tra le sette del mondo antico, quel faro andato distrutto nel Mediterraneo.
La sua voce sul palco di sabbia e vento echeggia con 14 secoli di anticipo i versi ottocenteschi di Schiller nell’inno alla gioia musicato da Beethoven: la Gioia, scintilla divina figlia dell’Eliseo, che riunisce gli uomini separati dalle mode e dalle tempeste della Storia. Perseguitata da coloro che prima erano perseguitati, nel solito gioco dei corsi e ricorsi storici di Vicana memoria che fino alla Rivoluzione Francese e Russa ha caratterizzato i momenti storici di rottura, Ipazia è l’agnello sacrificale del lockdown della ragione, divisa tra la protezione dell’amato Oreste, il livore perentorio del vescovo Cirillo e il cristianesimo moderato dell’ex allievo Sinesio, interpretati dagli attori Giuseppe Cerrone, Luciano Dell’Aglio e Andrea Palladino.
La studiosa ebbe sul grande schermo le fattezze del premio Oscar Rachel Weisz una decina d’anni fa, nel film dello spagnolo Alejandro Amenabar Agorà che Umberto Eco definì “necessario e imperdibile”, assolutamente da vedere. Allora venivamo fuori dalla ferita dell’11 settembre, ed eravamo ancora ignari dei pericoli micidiali e incombenti dell’Isis, mentre oggi in epoca di no vax e teorie antiscientifiche sul Sars-Cov2 e sugli effetti del 5G la vicenda di Ipazia conferma la sua universalità e attualità straordinarie.