È difficile ultimamente non notare nei comportamenti e nei pensieri dell’uomo occidentale (e nello specifico quello italiano) una tendenza all’estremizzazione. Non mi sto certo riferendo ad alcun tipo di radicalizzazione o integralismo, bensì ad un atteggiamento che mi pare che, chi più chi meno, abbiamo assunto tutti nei confronti della realtà.
Sociologi, filosofi e studiosi vari sembrano d’accordo nel definire l’epoca in cui viviamo “post-ideologica”, ovvero quella che si è venuta a creare in seguito alla morte e al fallimento delle ideologie che imperavano durante il Novecento. Insieme a loro sembrano essere morte (c’è chi dice da decenni ormai) anche la destra e la sinistra. Il partitismo sembra non avere né peso né senso. Cosa ci rimane allora? Una realtà confusa, non delimitata, che si confonde in ogni suo intrinseco aspetto e in cui ci ritroviamo a vagare senza la luce di un faro che ci guidi. Battiato cercava il suo “centro di gravità permanente” e credo che in fondo è quello che ognuno sta cercando in questo periodo. Un sole personale attorno a cui gravidare, che ci trattenga e non ci lasci mai in balia del vuoto cosmico che ci trascinerebbe chissà dove.
Cerco di arrivare al punto. In una tale realtà senza confini delimitati ci affidiamo a ciò che già conoscevamo e lo portiamo al suo estremo. Ecco che si sente di nuovo parlare di scontri tra “fascisti” e “comunisti”, che dal 2018 sembrano proiettarci indietro di qualche decennio. Ecco che la democrazia inizia a stare stretta e la volontà di unione e condivisione lascia il passo all’egoismo, alle derive protezioniste e isolazioniste. Ecco che si invoca “l’uomo forte” che diriga le masse, che sappia bene cosa fare e come indirizzarci, a cui molti dicono (poi chissà se messi davanti a tale scelta sceglierebbero davvero quello che dichiarano) di volersi rimettere, di volersi fidare. Ecco la “marea nera” come molti giornalisti hanno temuto, la riscoperta dei fascismi e dei totalitarismi.
D’altra parte si può spiegare anche il fenomeno contrario, e qui arriviamo all’evento che ha fatto scaturire questa riflessione. Si porta all’estremo anche il desiderio democratico, invocando la “democrazia diretta” e del popolo, che diviene vero protagonista della vita politica del paese e a cui si rimettono le sorti dello stesso (così almeno viene dichiarato). Ed ecco che chiunque decide attivamente sull’operato dei rappresentati politici. Ecco che tutti sono chiamati a prendersi la responsabilità di votare un programma di governo, a decidere cosa è meglio per il paese, come se davvero ne avessimo le competenze. Ecco che il percorso di scarico di responsabilità fa un altro giro di boa attorno al popolo, a cui viene delegato un lavoro che non gli appartiene, e che questo esercita con la presunzione di sapere davvero come amministrare un paese senza pensare al proprio tornaconto o alla propria piccola realtà giocoforza limitata.
O tutti partecipanti o tutti sotto le direttive dell’”uomo forte”. Davvero non riusciamo ad immaginare niente di diverso? Davvero non riusciamo a creare qualcosa che non sia già esistito, pensato o detto? Davvero questo popolo di inventori non riesce a reinventarsi – per l’appunto – a capire che la realtà è lontana anni luce da quella di qualche decennio fa e che quindi c’è bisogno di novità che si adattino a questa nuova? Questa fobia della novità che caratterizza la nostra epoca costituisce il nostro dramma e il nostro nuovo agire: non possediamo alcun centro di gravità attorno cui orbitare, un nostro sole, anzi abbiamo preso l’abitudine di agire (ancora una volta) in maniera estrema, aggrappandoci ad ogni sistema già esistente, senza mai reinventarci e trovare il giusto atteggiamento verso questa nuova realtà che ci si approccia ogni giorno con un volto nuovo che non riusciamo a riconoscere, dietro queste lenti vecchie e sporche che non abbiamo mai cambiato.