“Matthias et Maxime”, la penna e la regia di Xavier Dolan per un excursus di sentimenti, scontri, scoperte della propria identità e difficili rapporti materni in quel di Montreal.
di Renato Aiello

Passato prima in streaming e poi qualche mese fa in sala, Matthias et Maxime è il classico film di Dolan con tutte le coordinate delle sue opere più famose, da J’ai Tué ma mère a Tom à la Ferme, da Juste la fin du Monde fino a Mommy.
Dopo il mezzo passo falso del debutto hollywoodiano con La mia vita con John Donovan, dove aveva diretto star del calibro di Susan Sarandon, Natalie Portman, Kit Harington e Thandie Newton, il giovane regista canadese, apertamente e dichiaratamente gay, si concede l’ennesimo excursus di sentimenti, scontri, scoperte della propria identità e difficili rapporti materni in quel di Montreal.
Dirige ed è anche coprotagonista di un’amicizia che inevitabilmente si trasforma in qualcosa di più, fin dal bacio per finzione tra i due amici, Matthias e Maxime appunto, negato alla macchina da presa del film e concesso invece a quello della giovane filmmaker in erba.
Nel corso del film si intravede a malapena, riflesso in uno specchio o forse un vetro durante una visione del cortometraggio in famiglia, eppure è il motore di una trasformazione, di una presa di coscienza e di un’incredibile scoperta e messa in discussione del proprio io lunga l’intero film.
Per chi conosce la filmografia, ancora breve ma intensa, dell’enfant prodige Dolan, è scontato si approdi a un amore, una passione omoerotica se non proprio omosessuale: tutte le pellicole del regista trentenne quebecchese hanno caratteristiche ben precise, ripetute fino all’esasperazione forse, ma guai a etichettarlo “narcisista compiaciuto” perché il ragazzo si offende facilmente, come dimostra una sua vecchia reazione su Twitter. Non tarda a comparire anche il consueto rapporto lacerante materno, un topos abbastanza diffuso che in Mommy trovava la sua espressione massima qualche anno fa.
Eppure la sceneggiatura, fluidissima come i suoi interpreti destinati a salire la scala Kinsey – quella dell’identità sessuale per intenderci -, la mise en scene, la direzione degli attori e le ottime prove fornite fanno dimenticare la ripetizione ossessiva di temi e canovacci.
Il risultato è una gran bella storia d’amore, quasi ai livelli di Chiamami col tuo nome di Guadagnino, coinvolgente fino all’ultima inquadratura del finale apertissimo, in cui si rimane sospesi proprio come Maxime nella decisione di partire e lasciare tutto per l’Australia, lettera di raccomandazione del padre di Matthias permettendo. L’accettazione di sé non è mai indolore e passa attraverso momenti di scontro, rabbia, tensioni latenti al pari dell’omosessualità negata fino all’ultimo.
Come sempre nei film di Dolan la colonna sonora è accuratamente scelta e funzionale ad ogni scena, e ciò accade a metà film quando nella macchina, in attesa di muoversi per la festa di addio del giovane in partenza, esplode la hit francese J’ai cherché, accompagnata da un reciproco gioco di sguardi. Il ritornello in inglese, perfettamente inserito nel mood franglais del film (i personaggi parlano spesso in entrambe le lingue e alternano alle frasi in francese lo slang anglosassone), suggerisce bene quel tira e molla affettivo che lega e allontana i due inseparabili amici nelle due ore di film.
“Tu sei ciò che mi rende forte, ti ho cercato come la melodia della mia canzone, tu hai fermato la paura che dormiva nelle mie braccia, hai dato un senso ai miei perché e la voglia di essere me stesso”, cantava Amir 4 anni fa all’Eurovision song contest, la kermesse cui partecipò questa hit pop dance. Qualcuno gli darà del commerciale o del didascalico, ma quando si tratta di creare momenti emozionali con canzoni gettonate, che sia Dragostea Din Tei in È solo la fine del mondo o Bittersweet Symphony in The death and Life of John Donovan, oppure White Flag di Dido e la nostra Vivo per lei in Mommy, Dolan fa sempre centro e colpisce dritto al cuore.