“Nomadland” è il film migliore dell’anno ma lascia qualche perplessità. Senza ritmo, senza sussulti e scosse profonde.
di Renato Aiello

Se Frances McDormand non si discute mai in un film o in una serie tv, che siano girati dal marito e dal cognato (i mitici fratelli Coen) o da una donna come Chloé Zhao, il suo ultimo film – “Nomadland” – lascia invece qualche perplessità.
L’abbiamo tutti ascoltata sul palco, emozionata nel momento di ricevere il terzo Oscar come migliore attrice protagonista, che invitava il pubblico ad andare al cinema e a recuperare il film Leone d’oro all’ultima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. E chi ama il cinema come me in sala ci è andato, quasi spaesato e incredulo dopo tanti mesi di “lockdown cinefilo”. Le piattaforme non potranno mai sostituire il cinema in sala, e non gioverebbe nemmeno a loro una morte delle sale, pertanto l’esperienza va assolutamente fatta, senza indugi e ripensamenti.
Il film migliore dell’anno, almeno a giudizio dell’Academy di Los Angeles, si inserisce nel solco dei road movie che hanno fatto la fortuna migliore del cinema americano indipendente, tra i quali spicca senz’altro il bellissimo “Into the wild” di Sean Penn del 2008.
La recitazione impeccabile della McDormand, sempre intensa e misurata, mai una sbavatura insomma, non riesce però a far dimenticare la trama completamente inesistente di un film senza ritmo, senza sussulti e scosse profonde.
Il viaggio nel van della protagonista Fern, una lavoratrice stagionale di Amazon senza fissa dimora, nonché vedova, procede piatto, monocorde tra lavoretti saltuari e i piccoli mercatini delle pulci e del baratto tra nomadi, compagni dello stesso stile di vita anticonformista e anticonvenzionale.
Fern non riesce mai a lasciarsi andare, che si tratti di un uomo appena incontrato o della possibilità di dormire, fermarsi sotto un vero tetto. Persino l’eventualità di dover rottamare la sua casa mobile provoca in lei un turbamento. Le trasferte di Fern negli Stati Uniti occidentali non impediscono di guardare ogni tanto l’orologio, e non per il pensiero dell’orario del coprifuoco: c’è stanchezza nella vita di questa donna e pure lo spettatore avverte una certa noia dopo 60 minuti.
Nemmeno la presenza del bravo David Strathairn convince alla fine, o il lirismo della natura raccontata nelle sue asperità rocciose dei canyon, nel mistero delle sequoie californiane o nel meraviglioso video dei nidi di rondine sul laghetto e dei gusci galleggianti. Punti di forza in una cornice troppo debole, indecisa, sospesa.
Un vero peccato, soprattutto se si hanno a disposizione un candidato all’Oscar come Strathairn e un triplo premio Oscar come Frances McDormand, che raggiunge Meryl Streep e addirittura la supera in “peso” di statuette, dal momento che i suoi tre Academy Award sono tutti come migliore protagonista, mentre il primo di Meryl fu come non protagonista.